Istituto Dante Alighieri, Skopje

La figura di Boris Petkovski, che racchiudeva in sé un buon conoscitore dell’arte contemporanea, sia di uno spazio culturale più limitato che quello più esteso, ma anche un amico e un consulente, è rimasta principalmente per me come sloveno nel vivo della memoria. Forse per il fatto che vivevamo, conside­rando formalmente le dimensioni della Stato federale jugoslavo di allora, in due siti diametralmente distanti, ma tuttavia ci incontravamo abbastanza di frequente, eravano in rapporto epistolare… Ricordo la sua grafia: caratteri stretti, allungati, inclinati alquanto a sinistra: qual’era lui stesso, fisicamente slanciato, dall’anda­mento leggero, che gli era rimasto fin dai suoi giorni di studio del balletto classico, eretto quando si trattava di difendere i propri punti di vista dai quali defletteva malvolentieri. In questa sua eleganza naturale e spiri­tuale, che si “copriva” con la sua straordinaria larghezza di erudito, sapeva tuttavia rimanere uguale tra uguali: tale era agli inizi degli anni Settanta durante gli incon­tri di critici e selettori nell’ambito dei preparativi per le varie mostre di rassegna dell’allora Stato federale jugo­slavo, cioé quando si trattava di selezionare gli artisti di ogni parte dello stato di allora e da quel conglomerato creare un insieme convincente e artisticamente com­pleto. Boris Petkovski, da presidente pluriennale della sezione macedone dell’AICA (Associazione internazio­nale dei critici d’arte) moderava la temperatura critica dei suoi colleghi e durante la mia attività di segretario, e più tardi di presidente della sezione jugoslava, mi è stato sempre vicino con i suoi suggerimenti critici. E proprio io e lui abbiamo collaborato insieme alla Bien­nale di Venezia nell’allestimento del paviglione jugo­slavo di allora. La sua brillante conoscenza dell’italiano si è rivelata proprio in quei tempi.

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Rare erano le incombenze che insieme non riusci­vamo a sbrigare, a realizzare; tra l’altro, Boris espresse il desiderio di avermi come coredatore della grande monografia rappresentativa sulla scultura memoriale, associata soprattutto all’omaggio alle vittime della Se­conda guerra mondiale. Purtroppo, a causa dell’abro­gazione del fondo finanziario non potemmo realizzarla e ognuno di noi rimase con la propria edizione libraria, quella macedone, ovvero slovena, con il titolo di lavoro La Rivoluzione e l’Arte.

Mi è stato gradito aiutarlo con successo durante la raccolta di opere d’arte in donazione per la collezione del nuovo Museo di arte contemporanea che incomin­ciò a ideare subito dopo il sisma catastrofico di Skopje; nel medesimo tempo quando il celebre architetto giap­ponese Kenzo Tanghe aveva incominciato a predisporre i progetti per questo museo della nuova epoca. Come borsista del Consiglio britannico per la cultura ebbi l’oc­casione di incontrarmi a Londra con la generazione di artisti dei “sweet sixties”, di cui molti membri mi con­segnarono di persona, ed altri mandarono in seguito a Skopje le loro opere donate. Non sono ormai in grado di ricordarne tutti i nominativi, ma un’opera – il disegno dell’illustre David Hockney che personalmente portai a Skopje, è senza ombra di dubbio una delle opere d’ar­te più significative, per cui mi piace riandare all’epoca della pop-art e del neorealismo, di cui so con certezza che li aveva a cuore anche Boris Petkovski.