Istituto Dante Alighieri, Skopje

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Come si diventa scrittore così giovani?

È strano come il discrimine per diventare scrittore sia la pubblica­zione del libro. Sembrerà paradossale, ma io mi sentivo più scrit­tore lo scorso anno durante la fase della scrittura de La solitudine dei numeri primi che adesso. Però è un dato di fatto che bisogna aspettare il benestare altrui e che sei tanto più ‘scrittore’ quanti più libri vendi. Io abbraccio la definizione che ci siano molti autori ma pochi scrittori, e tutto sommato non credo che ci sia un istan­te esatto in cui cominci a credere di essere uno scrittore.

Come ti poni rispetto alla realtà che ti circonda, alla società: che rapporto hai con quello che ti sta intorno?

Un conto è leggere le notizie e prendere atto di quello che è suc­cesso, un’altra cosa sentire e percepire che questa cosa ti riguar­da. Per me arrivare a sentirmi parte di una realtà generale è stato un percorso lento. Non ho cercato nell’adolescenza un’apparte­nenza, non mi identificavo con nessuna ideologia e questo mi rendeva avulso dal resto: ho dovuto lasciare che questo percorso si sviluppasse da sè e piano piano sono arrivato a sentirmi parte della società civile.

Perché due protagonisti giovanissimi nel tuo libro d’esordio La solitudine dei numeri primi?

Prima di arrivare al romanzo avevo scritto solo racconti con pro­tagonisti bambini, per cui è stato naturale per me scegliere due protagonisti molto giovani e parlare alternativamente delle pe­ripezie di Alice e Mattia che come avete letto raccontano la loro storia per arrivare ad un lieto fine. Ho l’idea dell’adolescenza come di un lungo periodo in cui si guarisce dall’infanzia. Io per scrivere sono andato a pescare nel bagaglio della mia infanzia, come se le cose davvero importanti le avessi vissute solo lì. Nell’adolescenza guardi un po’ sotto il coperchio di una pentola nella quale duran­te l’infanzia hai infilato un po’ di tutto e da lì cominci a capire che cosa hai vissuto davvero.

La tua attività di scrittore prende le mosse da un corso di scrit­tura prestigioso, no?

Ho frequentato la scuola di scrittura Holden di Alessandro Baric­co e Lea Iandiorio, sì, ma ho un atteggiamento conflittuale con i maestri in genere, ‘mi durano’ poco: se trovo un libro che mi sconvolge comincio a elaborarne i motivi, quindi l’interesse sce­ma una volta che ho capito perché. Amo gli scrittori americani come Chuck Palahniuk che tendono all’assurdo, mentre quando mi metto a scrivere vedo che non sono in grado di scrivere così, che non seguo le cose che mi hanno ispirato. Un altro maestro è sicuramente Michael Cunningham, che mi ha accompagnato per un lungo periodo della mia vita.

Veniamo all’esperienza del Festivaletteratura di Mantova 2008: molti scrittori, ma pochi confronti?

Mi dispiace vedere che non c’è tanto interesse per il lavoro altrui, che sia un’utopia dialogare con chi fa il tuo lavoro. È normale che nel momento in cui si fa breccia ci sia una crescita esponenziale, è la prima soglia che è difficile da superare poi dopo ti rotola tutto addosso. Ma al di là della certezza del fatto che sia una esperienza unica quella che sto vivendo, non mi piace questo accanimento che va fuori dal tuo controllo e che non ti da la possibilità di riflet­tere sulle cose.

 

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Pubblichiamo in seguito un brano del romanzo LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI

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I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiac­ciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravi­gliosi. Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbagli, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che anche a loro sa­rebbe piaciuto essere come tutti, solo dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci. Il secondo pensie­ro lo sfiorava sopratutto di sera, nell’intrecciarsi caotico di imma­gini che precede il sonno, quando la mente è tropo debole per raccontarsi delle bugie.

In un corso del primo anno Mattia aveva studiato che tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiama­no primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vi­cini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Nu­meri come l’11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradono. Ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le coppie incontrate fino a lì fossero un fat­to accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli. Poi, proprio quando ci si sta per arrendere, quando non si ha più la voglia di contare, ecco che ci si imbatte in altri due gemelli, avvinghiati stretti l’uno all’altro. Tra i matematici è convinzione comune che per quanto si possa andare avanti, ve ne saranno sempre altri due, anche se nessuno può dire dove, finché non li scopre.

Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. A lei non l’aveva mai detto. Quando si immaginava di confessarle queste cose, il sottile strato di sudore sulle mani evaporava del tutto e per dieci minuti buoni non era più in grado di toccare nessun oggetto.

Un giorno d’inverno era tornato a casa dopo aver trascorso il pomeriggio da lei, che per tutto il tempo non aveva fatto altro che cam­biare da un canale all’altro della televisione. Mattia non aveva fatto caso alle parole né alle immagini. Il piede destro di Alice, appog­giato al tavolino del salotto, invadeva il suo campo visivo, penetrandolo da sinistra come la testa di un serpente. Alice piegava e flet­teva le dita con una regolarità ipnotica. Quel movimento ripetuto gli aveva fatto crescere qualcosa di solido e inquietante nello stoma­co e lui si era sforzato di tenere lo sguardo fisso il più a lungo possibile, perché nulla cambiasse in quell’inquadratura.

A casa aveva preso un mazzetto di fogli pu­liti dal quaderno ad anelli, uno spessore suf­ficiente perché la penna potesse scorrerci sopra morbidamente, senza raschiare sulla superficie rigida del tavolo. Ne aveva pareg­giato i bordi con le mani, prima sopra e sotto e poi ai lati. Aveva scelto la penna più cari­ca tra quelle sulla scrivania, le aveva tolto il cappuccio e l’aveva infilato in cima per non perderlo. Poi aveva cominciato a scrivere al centro esatto del foglio, senza bisogno di contare i quadretti.

2760889966649. Aveva richiuso la pen­na e l’aveva posata a fianco del foglio. uemilasettecentosessantamiliardiottocentottantanovemilioninovecentosessantaseimilaseicentoquarantanove, aveva letto ad alta voce. Poi di nuovo, sottovoce, come per ap­propriarsi di quello scioglilingua. Decise che quel numero sarebbe stato il suo. Era sicuro che nessun altro al mondo, nessun altro in tutta la storia del mondo, si fosse mai ferma­to a considerare quel numero. Probabilmen­te, fino ad allora, nessuno l’aveva neppure mai scritto su un foglio e men che meno pro­nunciato ad alta voce.

Dopo un attimo di esitazione era andato due righe sotto e aveva scritto 2760889966651. Questo è suo, aveva pensato. Nella sua testa le cifre avevano assunto il colore livido del piede di Alice, stagliato sui bagliori azzurati del televisore.

Potrebbero anche essere due primi gemelli, aveva pensato Mattia. Se lo sono…

Si era arrestato di colpo a quel pensiero e aveva iniziato a cercare dei divisori per i due numeri. Con il 3 era facile: bastava fare la somma delle cifre e vedere se era un multiplo di 3. Il 5 era fuori in partenza. Forse c’era una regola anche per il 7, ma Mattia non la ricor­dava più e così si era messo a fare la divisio­ne in colonna. L’11, il 13 e così via, in calcoli sempre più complicati. Mentre provava con il 37 il sonno l’aveva catturato la prima volta e la penna gli era scivolata giu per la pagina. Arrivato al 47 aveva smesso. Il vortice che gli aveva riempito lo stomaco a casa di Alice si era disperso, si era diluito nei suoi muscoli come gli odori nell’aria e lui non era stato più in grado di avvertirlo. Nella stanza c’erano soltanto lui e una quantità di fogli disordina­ti, pieni di inutili divisioni. L’orologio segnava le tre e un quarto del mattino.

Mattia aveva ripreso in mano il primo dei fogli, con i due numeri scritti al centro, e si era sentito un imbecille. L’aveva strappato a metà e poi ancora a metà, finché i bordi non erano stati abbastanza tesi da poterli passa­re come una lama sotto l’unghia dell’anulare sinistro.

Durante i quattro anni di università la ma­tematica l’aveva condotto negli angoli più remoti e affascinanti del ragionamento uma­no. Mattia ricopiava le dimostrazioni di tutti i teoremi che incontrava nel suo studio con una ritualità meticolosa. Anche nei pomerig­gi d’estate teneva le persiane abbassate e la­vorava sotto la luce artificiale. Toglieva dalla scrivania tutto quello che poteva distrarre il suo sguardo, per sentirsi davvero solo con il foglio. Scriveva senza fermarsi. Se si trovava a esitare troppo a lungo su un passaggio o sbagliava ad allineare un’espressione dopo il segno di uguale, spingeva il foglio a terra e ricominciava da capo. Giunto al fondo di quelle pagine fitte di simboli, di letteree nu­meri, scriveva la sigla c.v.d. e per un istante gli sembrava di aver messo in ordine un piccolo pezzo di mondo. Allora si appoggiava allo schienale della sedia e intrecciava le mani senza farle strisciare una sull’altra.

Lentamente perdeva contatto con la pagina, i simboli che fino a un istante prima fluivano dal movimento del suo polso, ora gli appari­vano distanti, congelati in un luogo a cui gli era negato l’accesso. La sua testa, immersa nel buio della stanza, tornava ad affollarsi di pensieri cupi e chiassosi e il più delle volte Mattia sceglieva un libro, lo apriva a caso e riprendeva a studiare.L’analisi complessa, la geometria proiettiva e il calcolo tensoriale non erano riusciti ad allontanarlo dalla sua passione iniziale per i numeri. A Mattia piace­va contare, partire da 1 e proseguire secon­do le progressioni complicate, che spesso inventava sul momento. Si lasciava condurre dai numeri e gli sembrava di conoscerli, uno per uno. Per questo, quando fu il momento di scegliere la tesi di laurea, si recò senza al­cun dubbio nell’ufficio del professor Niccoli, ordinario di calcolo discreto, con il quale non aveva dato nemmeno un esame e del quale non conosceva che il nome.

Lo studio di Francesco Niccoli stava al terzo piano dell’edificio ottocentesco che ospitava il dipartimento di Matematica. Era una stan­za piccola, ordinata e indore, dominata dal colore bianco delle pareti, degli scaffaloùi, della scrivania di plastica e del computer in­gombrante poggiatovi sopra. Mattia tambu­rellò piano sulla porta e dall’interno Niccoli non fu sicuro se stessero bussando a lui o all’ufficio accanto. Disse avanti, sperando di non fare una figuraccia.

Mattia aprì e mosse un passo dentro l’ufficio.

-Buongiorno, disse.

-Buongiorno, gli rispose Niccoli.

Lo sguardo di Mattia venne catturato da una fotografia appesa dietro al professore, che lo ritraeva, molto più giovane e senza barba, con in mano una targhetta d’argento, mentre stringeva la mano a uno sconosciuto dall’aria importante. Mattia strizzò gli occhi, ma non riuscì a leggere la scritta sulla targhetta.

– Allora? – lo esortò Niccoli, osservandolo ac­cigliato.

– Vorrei fare una tesi sugli zeri della zeta di Riemann- disse Mattia, puntando lo sguardo sulla spalla destra del professore, dove una spolverata di forfora sembrava un piccolo cielo stellato.

Niccoli fece una smorfia, simile a un sorriso ironico.

-Mi scusi, ma lei chi e?- chiese senza nascon­dere l’ironia e portandosi le mani dietro la testa, come se volesse godersi un attimo di divertimento.

-Mi chiamo Mattia Balossino. Ho finito gli esami e vorrei laurearmi entro l’anno.

-Ha con sé il libretto?

Mattia fece sì con la testa. Lasciò cadere lo zaino delle spalle, si accovacciò per terra e vi furgò dentro. Niccoli allungò la mano per prendere il libretto, ma Mattia preferì posarlo sul bordo della scrivania.

Da alcuni mesi il professore era obbligato ad allontanare gli oggetti per metterli bene a fuoco. Scorse velocemente la sfilza di trenta e trenta e lode. Non una sbavatura, non un’ esitazione o una prova andata storta, magari per una storia d’amore finita male.

Richiuse il libretto e guardò più attenta­mente Mattia. Era vestito in modo anonimo e aveva la postura di chi non sa occupare lo spazio del proprio corpo. Il professore pensò che era un altro di quelli che nello studio ri­escono bene perché nella vita sono dei fessi. Quelli così, non appena finiscono fuori dal solco ben tracciato dell’università, si rivelano sempre dei buoni a nulla, commentò fra sé.

-Non pensa che dovrei essere io a proporle un argomento?-domandò, parlando lenta­mente.

Mattia scrollò le spalle. I suoi occhi neri si muovevano a destra e a sinistra, seguendo lo spigolo della scrivania.

-A me interessano i numeri primi. Voglio la­vorare sulla zeta di Riemann.- ribadì.

Niccoli sospirò. Poi si alzò e si avvicinò all’ar­madio bianco. Mentre scorreva con l’indice i titoli dei librisbuffava ritmicamente. Prese alcuni fogli stampati a macchina e pinzati in un angolo.

-Bene, bene- disse passandoli a Mattia.- Può tornare quando ha rifatto i conti di questo articolo. Tutti.

Mattia prese il plico e, senza leggerne il titolo lo infilò nello zaino che se ne stava addossa­to alla sua gamba, aperto e floscio. Biascicò un grazie e uscì dall’ufficio tirandosi dietro la porta.

Niccoli tornò a sedersi al suo posto e pensò a come a cena si sarebbe lamentato con sua moglie per questa nuova e inattesa seccatu­ra.