“Benvenuti al Sud” di Paolo Rumiz
Ma perchè vi ostinate a venire al Sud? Non vedete che è scomparso dalle mappe? Erano i meridionali per primi a sconsigliarci. A sentire i loro consigli, quel viaggio a piedi sull’Appia non s’aveva da fare. «Passerete le terre di Gomorra, i fuochi e le bufale, l’illegalità e il sopruso». Altri ammonivano: «L’Appennino si spopola, troverete più cani liberi che uomini ». Ma anche da Roma in su, in molti cercavano di farci desistere. «Avrete a che fare con speculazione edilizia, barriere, abusivismo. Dovrete scavalcare proprietà private, sarà un inferno». Ma l’argomento- chiave era il marketing dei grandi numeri: il Sud è già perso, dicevano. Non vale un simile investimento. Andate a faticare altrove. Ma noi, teste dure del Nord, ci ostinavamo a voler partire. Anzi. Più ci sconsigliavano e più la voglia aumentava. Boia chi molla. Non era solo il dovere civile di riconsegnare al Paese un bene scandalosamente abbandonato. Era la curiosità. Com’erano quelle terre? Che umanità avremmo incontrato? Al Sud c’eravamo già stati; io poi ci avevo costruito cinque dei quindici viaggi estivi per Repubblica . Ma quello era un’altra cosa, era la prova della verità. Chi va a piedi non ha difese, sbatte contro le cose. Solo chi si impolvera le scarpe e batte la terra con “piede libero”, come scrive il poeta Orazio, conosce il mondo per davvero. Il mondo non è di quelli che pretendono di controllarlo con i droni e gli smartphone.
Fatalmente, il cammino è stato un corpo a corpo con l’Italia d’oggi. In un paesaggio unico al mondo, incontravamo svincoli terrificanti da aggirare, montagne intere svendute a multinazionali, fontane e piste ciclabili già a pezzi dopo l’inaugurazione. La strada maestra che aveva portato a Sud il segno di Roma ora portava a Nord il segno della camorra, disegnava i contorni di un Far West appena fuori la Capitale. E poi una burocrazia spagnolesca, pronta a interdire il meglio e a sanare il peggio. E la solitudine degli onesti. E i giornali, lì a sparare in copertina cifre terrificanti sulla crisi economica, demografica, sociale e culturale del Mezzogiorno. Avevamo sbagliato tutto? Non avevamo sbagliato. Più la strada si addentrava nell’osso d’Italia, più il contenuto archeologico del viaggio si indeboliva e la via si trasformava in un esile filo d’Arianna, e più la temperatura umana aumentava, proponendoci sequenze di incontri casuali fatti apposta per mostrarci l’altra faccia di Gomorra. Andare a piedi ci faceva incontrare il Sud migliore; e il nostro essere del Nord, lì in umiltà francescana, per ascoltare e non per giudicare, coglieva gli “indigeni” di sorpresa e accendeva in loro un orgoglio perduto. Per non parlare di quelli che erano stupiti di apprendere da noi, forestieri, la loro appartenenza alla più antica delle vie d’Europa. Ma di questo si è già detto. Quello che non si è scritto è il dopo, la conclusione di questa avventura italiana dura e grandiosa, profumata di origano selvaggio e ginestra, dove il bello e il terribile restavano intimamente intrecciati. Parlo della strada, percorsa in senso contrario, da Brindisi fino a Roma — non a piedi, una volta tanto — per ascoltare il popolo del Mezzogiorno. Un percorso scandito da una ventina di incontri, nati dall’eco del racconto d’agosto su Repubblica . Cinquemila persone, una sorpresa assoluta, con dibattiti carbonari e appassionati, che ci restituivano il senso di quanto avevamo fatto e ci svelavano di aver messo mano a qualcosa di più grande di quanto avessimo immaginato.
Un simbolo. Taranto, per esempio. Assemblea all’aperto tra i resti del convento dei Battendieri, località fuori mano a Nord del Mar Piccolo. Cielo nero, sera che scende, aria di pioggia imminente. «Non verrà nessuno», pensiamo tra noi. Invece, ecco in trecento ad aspettarci, a dirci che quella strada è un simbolo di riscatto, di un’appartenenza comune, di una centralità perduta da riconquistare. Poi lo scroscio arriva, gli ombrelli si aprono, ma nessuno si muove, e noi lì ad arringare stupefatti gente inchiodata al suo posto. E quando l’amplificazione viene interrotta causa pioggia, ecco che tutti si spostano ordinatamente al riparo di una tettoia per dialogare ancora, senza microfono, fino all’agonia del crepuscolo. Sorprese, come a Gravina di Puglia. “Una bella donna vestita di stracci”, la definisce qualcuno come metafora di tutto il Sud, ma dall’incontro esce di tutto fuorché rassegnazione. «Questa è una sfida alla riappropriazione dell’ambiente, della sua storicità e vivibilità. Il Colosseo è Hollywood, la realtà italiana è altro, è fatta di piccole comunità, di meraviglie sparse sul ter- ritorio». E ancora: «Il Sud non ha bisogno di soldi! Quello che ci manca è una spinta culturale che ci svegli dal torpore e ci aiuti a riappropriarci dei nostri valori e delle nostre radici!», conclusione che si tira dietro un lungo, commosso applauso, e fa dire a qualcuno che l’Appia riapre la questione meridionale, e sposta l’asse del dibattito da Roma in giù. “Le colombe scappano, i corvi restano”, è il leit-motiv che declina la sfiducia, l’idea che non vale la pena di restare. Ma in mezzo a tante fughe, ecco grandi ritorni. Come quello di Vinicio Capossela, nato da emigranti in Germania, che mette casa a Calitri, nel cuore più nascosto dell’Irpinia, per ambientare i suoi libri, ritrovare i fauni e gli dei perduti, narrare le leggende del cinghiale e del lupo. Da qui la sorpresa di uno Sponz Festival che resuscita la cultura appenninica dimenticata mutuando dal viaggio sull’Appia antica l’idea del cammino come riappropriazione del territorio; una festa mobile che attira migliaia di visitatori, anche stranieri, ed esorcizza la miseria della lamentela riabilitando il suo parente nobile, la lamentazione, rituale millenario per lenire il dolore. E poi lo scrittore Raffaele Nigro, che dopo una vita a Bari decide di nidificare nuovamente nella natìa Melfi, per costruire cultura e appartenenza, riabilitando non tanto Spagnoli e Borboni, ma Normanni, Svevi e Longobardi. Questo per smontare vecchi alibi, dire che nei secoli il Nord ha portato anche bene al Mezzogiorno, e ricordare ai Lucani che le loro erano le terre preferite di Federico II, l’imperatore sceso dalla Germania. Uomo che mai visse arroccato in una corte, ma sempre errò a piedi e a cavallo tra fiumi e montagne d’Appennino, spostandosi su un territorio che oggi nemmeno i ministri della Repubblica conoscono più. Settentrionale come Carlo Levi, piemontese che amò il Sud.
O come noi quattro, camminatori dell’Appia antica. Ma a questo Sud diverso appartiene anche l’ostinazione di chi resta, come l’irpino Franco Arminio, autore di Vento forte tra Lacedonia e Candela , il quale, in una terra stuprata dall’eolico pesante, quella fra Puglia, Campania e Basilicata, dedica al paesaggio un festival dal bel nome di “La Luna e i calanchi”. Gli appartiene persino la voce critica di chi se ne è andato, come lo scrittore Antonio Pascale, figlio della Terra di Lavoro (Caserta), che rifiuta autoindulgenze e propone al Sud una rinascita culturale capace di svincolarsi dalla complicità mentale con la camorra e dall’alibi eterno che “il male è sempre fuori di noi”. I demoni, guai tacerli. Abitano il territorio. Ed ecco, a Santa Maria Capua Vetere, ma anche a Venosa e a Marcianise, la rivolta della maggioranza del pubblico contro chi imputa a noi viaggiatori per conto di Repubblica di aver mostrato più il brutto che il bello del Meridione. «Siete stati anche troppo buoni!», esplode qualcuno nel mezzo del dibattito, mentre altri ci spiegano che il viaggio dell’Appia è, al di là di tutto, un’azione politica, perché indica una strada di cambiamento, mette in rete realtà che non hanno mai comunicato fra loro e mostra al Sud un progetto comune. E ancora: «Il nostro problema è la debolezza identitaria. Siamo passivi. Accettiamo tutto quello che ci portano da fuori. Come l’Ilva». Ed ecco il peggio che viene allo scoperto, in un impressionante outing collettivo che sbarra la strada all’autoassoluzione. Storie di colline intere svendute alle multinazionali dell’acqua e del vento. Amministratori che ammettono davanti ai cittadini: sì, abbiamo asfaltato troppo, costruito male. Appalti marci denunciati ad alta voce in mezzo a centinaia di persone. Accuse di ingratitudine mosse dai giovani di Matera ai loro conterranei, rei di aver mandato a casa il sindaco che ha conquistato per loro il titolo di città europea della cultura. Tutto questo, pare impossibile, risvegliato da un viaggio a piedi. Ma i piedi, si sa, aiutano a incontrare, ascoltare. E forse il Sud, a ripensarci, ha solo bisogno di ascolto.